LOVE BY FEDERICO TADOLINI

LOVE

Nome: Alan Wilde

Età: 25

Causa del decesso: morte per dissanguamento. Il corpo presenta numerose ecchimosi e ferite dovute a presunti morsi auto inferti. Il cadavere risulta sprovvisto degli arti superiori, il cuore è assurdamente posizionato a destra, mentre il fegato è a sinistra e ha una consistenza simile a burro.

Non risultano tracce di sostanze stupefacenti nell’organismo. Il ragazzo, al momento del ritrovamento era in stato confusionale, dalla bocca fuoriusciva un liquido verde non identificato. Le pareti della stanza erano tappezzate di carne andata a male, viscere e resti di liquidi organici.

Numerose taniche d’acqua sparse per la stanza, sangue dappertutto, resti di animali morti, sbranati, sprovvisti di organi interni.

 

Alan aveva perso interesse in ogni cosa: al lavoro visto che non riusciva più a consegnare una tavola decente al proprio editore. Un tempo, la matita come per magia, si muoveva da sola, adesso la mano invece gli tremava.

Nello sport, visto che erano settimane che non usciva a fare surf, ma soprattutto nella vita, dal momento che stava chiuso in casa a giornate.

Non rispondeva al telefono, l’unica persona che avrebbe voluto vedere invece se n’era andata, l’aveva lasciato per un altro uomo, così da un momento all’altro.

Non aveva la forza di lottare, ma accettava questa resa in modo impietoso, in un eccesso di follia si era tatuato da solo sul cuore l’iniziale del suo nome, N, come Natalie in modo tale da non dimenticare mai il male che gli era stato fatto.

Se l’era inciso con un coltello arroventato col fuoco, dopo essersi scolato almeno due bottiglie di Jack Daniels.

Non riusciva a sentire nemmeno il dolore, ormai era talmente grande quello interno che per il resto non percepiva più nessuna sensazione.

Gli era stato tolto tutto, compresa la propria identità, si guardava allo specchio e vedeva una sorta di essere che stava diventando sempre di più un mostro.

I capelli ormai erano quasi del tutto persi, sulla cute si stava delineando una chiazza di colore rossastro che ogni tanto faceva fuoriuscire un liquido giallo tipo pus mescolato a sangue.

Faceva impacchi con ghiaccio e amuchina, ma il problema aumentava sempre di più, procurando anche un fortissimo prurito.

I denti stavano cadendo a causa di una fortissima infiammazione alle gengive, ma non aveva proprio voglia di andare dal dentista, per il momento non facevano male e questa era la cosa importante.

La pelle si stava squamando, ma era un problema che aveva fin da piccolo, appena avvertiva un po’ di stress, diventava secca e si trasformava come se fosse forfora.

Ma la cosa più inquietante era quel tatuaggio fatto in maniera così avventata.

Il giorno dopo Alan venne svegliato da un tremendo odore, come di qualcosa andato a male, si alzò di scatto e controllò nel frigo, ma effettivamente era vuoto.

La casa era disordinata, ma non lasciava mai nessun residuo di cibo andato a male.

Si recò in bagno e fece per togliersi la maglia, ma non ci riusciva, sembrava fosse incollata alla pelle. Se provava a forzare, sentiva un fortissimo odore, prese le forbici e la tagliò via di netto.

Venne investito da un fortissimo tanfo, come fosse carne marcia.

Il disegno si era infettato, qualcosa era andato storto: l’iniziale del nome, aveva preso dimensioni enormi, si era allargato contornato da una patina di piccoli puntini di colore rosso, sovrastati da un grosso ceppo bianco, che se sfiorato faceva fuoriuscire un liquido bianco e corposo simile a sperma che se entrava a contatto con la pelle, procurava una forte ustione come se venisse a scontrarsi con qualcosa di bollente.

Alan capì che avrebbe dovuto umiliarsi, chiedere aiuto a Natalie, telefonarle, sapeva benissimo che se fosse tornata da lui, tutto quello schifo sarebbe passato.

“Natalie, scusa se ti disturbo, non mi sento bene”

“ha sbagliato numero, mi spiace”

“ma non mi riconosci? Cazzo Natalie, aiutami!”

“mi scusi, le ripeto che ha sbagliato numero, qua non c’è nessuna Natalie, ora se non le dispiace avrei delle cose da fare”.

Ricontrollò nuovamente il numero, cosa stavano nascondendo? Sarà stata qualche sua amica a cui aveva detto di comportarsi così nel caso le avesse telefonato?.

Si mise un lungo cappotto di pelle nera, una sciarpa, un cappello ben calato sul volto e una sciarpa, in modo tale che nessuno lo potesse vedere in questo stato.

Guardò dallo spioncino della sua porta, sembrava che non ci fosse nessuno a impicciarsi dei suoi affari.

Scese frettolosamente le scale, quando si ritrovò davanti l’amministratrice del palazzo.

“Buongiorno signor Wilde, lo sa che ieri l’abbiamo cercata per tutto il giorno?”

“mi scusi, ma ero fuori per lavoro”

“eppure le regole le conosce, quando si sta fuori per parecchio tempo, le chiavi vanno consegnate in portineria”

“Mi dispiace, non risuccederà”

“bene, e per la quota mensile?”

“non ci sono problemi nemmeno per quella. Posso pagare con un assegno?”

“sarebbe meglio in contanti, ma basta che saldi il suo conto”.

Alan si era accorto del suo sguardo: aveva visto quella vecchia troia, lo stava osservando, aveva capito che qualcosa nel suo corpo era mutato. Forse vedendo le bende sulle mani già impregnate di sangue, percepiva anche lei il puzzo del suo corpo che stava marcendo.

Era desideroso di andare dalla sua ex compagna, non c’era odio e nemmeno rabbia, non riusciva a provare niente, se non un grandissimo vuoto che si portava dentro.

Era comunque l’unica persona che conosceva con cui non si sarebbe vergognato nel mostrarsi in queste condizioni e moriva dalla voglia di poterla rivedere anche se per pochissimi minuti.

Attraversò tutta la città a piedi immerso nelle tenebre della notte, con quel velo di nebbia che rendeva il tutto ancora più spettrale.

Arrivò davanti al suo palazzo, un residence con centinaia di appartamenti dove magari la maggior parte delle persone rimaneva all’oscuro dell’esistenza altrui.

Controllò i campanelli, ma non vi era traccia del suo cognome.

Interno 66, famiglia Nichols- Bellamy. Com’era possibile? Controllò nuovamente, ma ancora niente, di quella famiglia non c’era traccia.

Suonò il campanello visto che il cellulare di Natalie, non dava più segni d’esistenza.

“Chi è a quest’ora della notte?”

“salve, sono Alan, mi scusi per l’orario, cercavo Natalie”

“se ne vada o chiamo la polizia, non c’è nessuna Natalie”

“ma la famiglia Leonard, si è trasferita?”

“abitiamo qua da vent’anni, e non c’è mai stata nessuna famiglia Leonard. Devo chiamare la sorveglianza?”

“No, me ne vado”.

Gli sembrava di impazzire, oppure era un complotto. Continuò ad aggirarsi per la città, lunghe strade solitarie che mai come stanotte sembravano non finire più.

Un fitto gelo e un’intensa tristezza penetravano dentro il giovane ragazzo, non c’era nessuno con cui scambiare due parole.

In lontananza vide una luce a neon di un locale: rabbit hole.

Il locale era vuoto, se non fosse stato per la presenza di una ragazza seduta ad un tavolo con lo sguardo perso nel vuoto.

Notò immediatamente il gesto di disappunto del barista, che magari stava già pregustando la fine di un’inutile giornata di lavoro.

“Mi scusi, state chiudendo?”

“dieci minuti”

“okay, va benissimo, una coca cola per favore. Anzi mi faccia qualcosa di forte”

“ottimo ragazzo, la specialità della casa è il nostro cocktail incubo. Tre dosi di rum, cointreau e vino rosso. Vedrai che non rimarrai deluso”.

Alan prese il cocktail e si avvicinò alla ragazza. Questa intraprendenza non era da lui, però aveva un dannato bisogno di calore umano.

“Ciao, sei anche tu da sola?”.

Si girò di scatto verso di lui accennando un timido sorriso. Era di una bellezza molto particolare: lunghi capelli neri, occhi marroni ma che nascondevano molta tristezza. Gli prese la mano e con molta energia lo portò fuori dal locale.

“Come ti chiami?”

Indicò di rimanere in silenzio e attraversarono la piazza contornata da numerosi monumenti che di notte assumevano immagini molto inquietanti, come figure spettrali in movimento.

Entrarono in un palazzo fatiscente, un tremendo puzzo di urina mescolata ad incenso aleggiava nell’aria, rendendola irrespirabile. La situazione non era delle migliori, però Alan voleva fidarsi di quell’enigmatica ragazza, l’unica persona con cui aveva avuto un contatto, magari una maniera per arginare anche solo per una notte, tutte quelle paranoie che stavano distruggendo la sua vita.

Varcata la soglia del suo appartamento, si spogliarono e fecero l’amore, senza nemmeno sapere il loro nome.

Anche lei portava sul corpo i suoi stessi segni, resi ancora più accentuati dal contrasto con la sua pelle chiarissima.

Non fu una sensazione bella e appagante come i rapporti sessuali con Natalie, e una sensazione di freddo gli pervase l’anima.

Rimase a fissare per ore il soffitto vedendo scarafaggi che attraversavano le pareti.

Chiudeva gli occhi, li riapriva e non c’erano più.

Osservava la ragazza mentre dormiva, in fondo non gliene fregava niente nemmeno di lei, anzi tutte quelle macchie sul corpo la rendevano disgustosa.

Sentì qualcosa di umido sotto le coperte, come di appiccicoso.

Guardò le lenzuola, erano macchiate di sangue. La ragazza si girò verso Alan e sorrise, con un ghigno sprezzante, diabolico.

Il ragazzo si rivestì in fretta e scappò da quel posto così angosciante.

Improvvisamente la città sembrava essersi popolata, numerose persone chine sul proprio strumento tecnologico che si ignoravano l’una con l’altra.

Alan provava anche ad interagire, cercava disperatamente un contatto, un dialogo, si sentiva tremendamente solo, ma non gli rispondevano.

Gli venne fame, quindi si fermò in uno dei tanti market della città aperti tutta la notte.

Non appena varcò la soglia, attirò subito l’attenzione dei due proprietari, bisbigliavano tra di loro, gli sembrava quasi di sentirli, sicuramente lo avevano scambiato per un tossico. Si mise gli occhiali da sole, tutte quelle luci al neon gli davano noia agli occhi, così come le loro voci che si sovrapponevano declinando in una lingua sconosciuta. Continuavano ad osservarlo, forse avevano capito che aveva qualche strana malattia. Alan iniziò a sudare copiosamente come se fossero in estate, si aggirava intorno agli scaffali, ma niente sembrava attirarlo. Avanzò barcollando verso il bancone della carne. Ne prese un discreto quantitativo, e anche tanta acqua come se avesse voluto averne un ingente scorta.

Iniziò a scartare in maniera frenetica le confezioni della carne e capì definitivamente che si stava trasformando in qualcosa che non aveva più niente a che fare con l’essere umano.

L’odore del sangue diventò una tentazione a cui non riusciva più a sottrarsi, quindi ingerì la carne cruda, senza nemmeno cucinarla. In un primo momento, la ragione sembrava prevalere sull’istinto, vomitò al primo contatto tra la sua bocca e quella massa di poltiglia sanguinante, piangeva, però poi lo ingerì lo stesso, mescolata a sangue e vomito.

Riempì la vasca da bagno con i cubetti di ghiaccio ed amuchina per sfiammare le varie infezioni che si stavano allargando e rimase parecchio tempo ad osservare tutti i punti del proprio corpo.

La convinzione che si trattasse solo di una brutta infezione cutanea, si stava affievolendo sempre di più. Il ghiaccio diventava rosso sangue, i ceppi che si erano formati sulle estremità delle zone infette scoppiavano facendo fuoriuscire quel liquido schifoso che ammorbava tutta l’aria. Alan non riusciva a trattenere l’urina mescolata a sangue, era doloroso come espellere delle lamette da barba.

Qualcosa lo infastidiva dentro l’occhio, accese la luce e un piccolo verme bianco uscì dalla pupilla.

Attraverso lo specchio, poteva osservare un corpo ormai morto, putrefatto, prossimo alla decomposizione, quasi del tutto ricoperto di sangue e pustole.

Alan si sciacquò la bocca, sputando nel lavandino, l’acqua diventò verde mescolandosi al rosso insieme ad un paio di denti marci.

Non esisteva più nemmeno la radice, si erano disintegrati come fossero venuti a contatto con qualche materiale tossico.

Aspettava solamente la morte, sperando in una cosa veloce e con un  minimo di dignità, il tempo sembrava non passare mai, mentre quella tremenda fame che aveva avvertito continuava ad aumentare, mentre le scorte di cibo ormai erano terminate.

Non aveva più le forze per reggersi in piedi, i rumori si intensificavano nelle orecchie, rendendo il tutto ancora più complicato da sostenere. La follia ormai stvaa prendendo il sopravvento sulla razionalità: si ricordò di avere in cucina un frullino elettrico, che utilizzava per tagliare il roast-beef. Lo collegò alla presa elettrica e iniziò a tagliare la pelle ormai marcia e in completa putrefazione, non sentiva quasi per niente dolore, anzi al minimo contatto le pustole scoppiavano, e un violento geyser di sangue investiva il volto del ragazzo.

Iniziò a mangiarsi le braccia, voracemente come un animale selvatico si ciba della sua preda. Piccoli vermetti bianchi iniziarono a popolare la sua bocca, fuoriuscendo dalle sue cavità, come se avessero preso dimora di quel corpo ormai morto.

Ben preso la carne tagliata, andò a confondersi e mescolarsi a vomito e sangue, come in un improbabile cocktail.

Alan dopo essersi cibato di se stesso, con il braccio destro ormai ridotto ad uno scheletrico moncherino, impugnò la sua polaroid e cominciò a scattarsi foto, come a voler testimoniare quello che era diventato.

Aspettò la morte, lenta, inesorabile che lo liberasse finalmente da tutto quel freddo marciume.

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