TRAGICA NOTTE A LITTLE HOPE CAPITOLO 1

TRAGICA NOTTE A LITTLE HOPE

Capitolo 1

 

Little Hope è una tranquillissima cittadina americana della Georgia, c’ è tutto quello di cui una comunità ha bisogno: un supermercato molto grande, due scuole elementari, un boschetto che si estende per un pugno di chilometri, tre internet point, due cinema, un’università che ospita vari indirizzi di studio, un cimitero enorme e tre antichi castelli abitati da personaggi molto strani sui quali la gente inventava le più bizzarre dicerie. Gli abitanti del posto infatti non sapevano dire con esattezza da quanto quei tre castelli fossero abitati, da quegli strani personaggi, che raramente si facevano vedere in giro, gente schiva si diceva, riservata, troppo riservata.

Nel frattempo nella sala prove in Saint George Street Eric aveva appena finito la sua esibizione canora di prova, era sudato ed ansioso di avere l’approvazione del suo piccolo pubblico; il rigoglioso ciuffo si faceva notare sulla fronte gocciolante di sudore e il giubbotto che indossava non era meno vistoso, bianco e con le borchie dorate in rilievo, la spessa cintura lo avvolgeva alla vita ed era ornata di catenine che pendevano su un paio di pantaloni bianchi a zampa di elefante, le guance piene ed ornate di basettoni completavano il quadro d’insieme del nostro cantante. Dopo un minuto di silenzio Stuart dalla destra esclamò: “sei il peggior sosia di Elvis che abbia mai visto!” “Cacchio Eric se canti cosi non lo vincerai nemmeno quest’anno il concorso!” Disse ridacchiando la figura al centro “e poi…” “e poi basta!!!” Esclamò il nostro sosia di Elvis prima che un altro potesse aprir bocca. “Sono due mesi che mi alleno, ci metto l’anima e permetto a dei perditempo come voi di assistere alle mie prove ed osate anche mettere in discussione la mia somiglianza. Tu sei stonato come una campana!! “Gridò Samuel, e Betty ancora: “ahahahahah! Non ridevo così tanto dal funerale di mio marito ahahahaah!” “Siete una massa di cerebrolesi! Vedrete che la coppa del concorso sarà mia alla faccia vostra…” disse il terrificante cantante togliendosi di dosso la chitarra luccicante e sbattendo la porta dietro la sua figura, dirigendosi verso i bagni.

Si lavò con cura la faccia sudata, davanti allo specchio scassato, e dopo aver brevemente pensato di avere fra le mani la coppa del concorso che avrebbe dovuto svolgersi fra meno di due settimane, indietreggiò leggermente dal lavandino bianco, fece un giro su se stesso e disse a voce bassa: “Elvis…” guardandosi con ammirazione. Nel mentre dalla porta principale dei cessi piena di scritte oscene e volgarità varie fece il suo ingresso Stuart, “dai stavamo solo scherzando, non devi prendertela, lo sai che facciamo il tifo per te” “e fare il tifo è anche prendere per i fondelli?” Esclamò il nostro “prendere per i fondelli? Dai!!! Ci stavamo solo divertendo un po’ fra amici…” “francamente di amici come voi ne faccio volentieri a meno” tuonò Eric avvicinandosi alla figura che gli stava davanti abbigliata con un’anonima giacca marrone e pantaloni a quadri, lo superò ed apri la porta sbattendosela dietro, mentre Stuart rimase lì imbambolato. Eric si avviò verso la sua Cadillac rossa scintillante, aprì lo sportello e si sedette al volante, destinazione casa ed una bella doccia, sfrecciando per ST. Mary Street con Suspicious Mind sparata dallo stereo, il pensiero della coppa lo sfiorò nuovamente e si scoprì a sorridere mentre affrontava le curve; la Cadillac che aveva era un ricordo di suo padre ed a volte si ritrovava a pensare a quando papà gli insegnava a guidare proprio su quell’auto.

Sfrecciò davanti al barbiere in Colombo Street dove un gruppo numeroso di piccioni era intento a passeggiare sull’insegna al neon non ancora accesa, Antony il proprietario del negozio un uomo impettito e con la brillantina sui capelli tirati indietro usci di corsa con una scopa in mano urlando: “maledette bestiacce! Mi insozzano sempre l’insegna con i loro escrementi!” Ma prima che l’uomo potesse scattare contro i volatili, questi se ne andarono, cosi con una smorfia egli rientrò nel suo negozio. L’interno era ampio, un bell’ambiente dove ricche signore ma anche ragazzine ricche e viziate trascorrevano qualche ora a farsi i capelli, messe in piega, solarium e manicure, “uffa quanto devo aspettare ancora? È venti minuti che sono qui a leggere Cosmopolitan!” Esclamò la ragazza bionda sul divanetto bianco, “arrivo subito Amanda, non ti preoccupare, devo solo finire la messa in piega alla signora Smith ed arrivo!” La risposta della ragazza bionda fu solo un annoiato “uff” mentre continuava a leggere molto distrattamente la rivista che aveva preso sul tavolinetto a fianco. Amanda odiava aspettare , del resto non ci si poteva aspettare altro da una ragazza che a soli vent’ anni si trova ad essere una delle più ricche della città, con un conto in banca da capogiro, era una bella ragazza non c’è che dire, alta, con delle gambe lisce e affusolate, le labbra rosse, un seno prorompente se ne stava sotto un abitino di Dolce e Gabbana (del resto aveva sempre avuto un debole per l’alta moda italiana) ed una collana di diamanti si faceva notare sul collo sottile che trasportava un faccino adorabile tipo Barbie con due occhioni azzurri che facevano sognare. Intanto vedendo che la grassa signora Smith aveva cambiato postazione, prima che Antony la pregasse di mettersi comoda per le unghie la nostra si era già seduta sulla sedia davanti al grande specchio in attesa della manicure settimanale, non sgarrava mai, quel giorno della settimana era dedicato alle mani e alla messa in piega fosse anche caduto il mondo, “che manine, non voglio che si rovinino mai, ci tengo così tanto, sono come quelle della mamma, forse anche più belle vero Antony?” “Certo Amanda, le più adorabili di Little Hope” rispose prontamente il proprietario del negozio, che non era caratterialmente come le sue altezzose e antipatiche clienti, ma che si era in qualche modo dovuto abituare alla spocchiosità della sua clientela dopo anni di lavoro. Antony con fare professionale cominciò con la manicure prendendo la tronchesina per le unghie e cominciando il lavoro dal mignolo della mano destra, dopo quindici minuti mentre Antony era passato alle forbicine per pellicine e cuticole, fece il suo ingresso dalla porta principale in legno massello Vivien, una ragazza che Amanda conosceva molto bene. La nuova arrivata si fiondò subito vicino alla bionda “ciao Amanda come va?”Disse con un risolino provocatorio “mmm diciamo bene” disse Amanda, “ho saputo che hai perso la tua bestiola la scorsa settimana…” “sì in effetti è vero…. ma non è colpa mia se quel barboncino era cosi stupito da non stare un attimo fermo, lo avevo lasciato al palo solo una ventina di minuti, giusto il tempo di dare un’occhiata dentro la nuova boutique di Vuitton in centro ma quando sono uscita non c’era più” Vivien la guardò con fare provocatorio ed aggiunse: “non mi stupisce che tratti gli animali come oggetti, sai solo pensare alle sfilate di moda e ai tuoi capricci” “ma cosa dici? Come oggetti?! Era solo un cane scemo altrimenti mi avrebbe aspettata! Come ti permetti di parlarmi cosi? Lo sai che coi soldi che ho potrei comprare mezza città e tutti i suoi abitanti?” Disse la bionda strabuzzando gli occhi dalla rabbia, “ma ti senti quando parli brutta oca di merda? Tappati la bocca!” Replicò seccamente Vivien, “hei disse Antony, diamoci una calmata qua dentro” “ma Antony! La senti questa stronzetta?” “Basta ho detto!” Replicò il padrone “è mai possibile che quando voi due vi incontrate qui vada sempre a finire a parolacce? Non mi piacciono queste scene davanti ai miei clienti! Dove andrà a finire il mio buon nome se nei paraggi si sparge la voce che qui accadono scenate simili?” Sbottò Antony, ma intanto nessuno aveva fatto caso al fatto che Amanda avesse preso una saponetta vicino al phon. Strinse la presa, caricò il braccio e “studd…” questo fu il suono della saponetta che si spappolò sulla testa di Vivien davanti all’attonito Antony, mentre fra le altre signore c’era chi si mise a ridere, chi a scuotere la testa, e chi invece, soprattutto quelle in fondo bisbigliavano fra loro e indicavano la scena.

L’urlo di Vivien fu talmente acuto che probabilmente lo sentirono anche quelli che abitavano due isolati più avanti “ahhhhh!! Stupida!! Come hai osato! Adesso ti…” e si alzò dalla sedia diretta a braccia tese in direzione del collo di Amanda, ma come un fulmine improvviso l’uomo si frappose alle due litiganti “io non tollererò altre scene altrimenti una delle due sarà costretta ad allontanarsi”, intanto sguardi in cagnesco avvelenavano l’aria, “vi prego ragazze…” disse qualche istante dopo con voce più calma; “me ne vado non ho tempo da perdere con te, senti Antony rimandiamo il colore a lunedì ok?” “Si ok Vivien me lo segno subito” disse l’uomo allontanandosi lentamente dalle due.

Vivien usci con passo svelto dalla porta principale dopo aver lanciato un’ultima occhiata all’altra, “Amanda accidenti è mai possibile che dovete sempre punzecchiarvi voi due?” “Ma vedi Antony io rispondo sempre a chi osa provocarmi, sono la figlia di uno degli uomini più influenti della città, devo primeggiare ad ogni costo, le altre sono solo invidiose e provocatrici” disse lei rimettendosi comoda, l’uomo udendo quelle parole scosse semplicemente la testa e continuò nel suo lavoro. Ad un certo punto una delle signore in fondo con la gazzetta in mano esclamò:” avete sentito dello scandalo dei rifiuti tossici riversati nelle fogne e nei fiumi in periferia?” Antony ci pensò un attimo “si è vero lo avevo letto anch’ io qualche giorno fa, dicono che si dovrebbe aprire un’inchiesta…” la signora ancora: “ci sono nel mirino tre grandi fabbriche …” Antony si grattò la testa, “uffa con queste notizie… non c’è un po’ di gossip su quella rivista?” Gracchiò la bionda; “eh sì è una vergogna, un giorno o l’altro ci avveleneranno tutti con quelle porcate” disse Antony che poi riprese a sistemare la bellona, pensando tristemente a quanto poco cervello ci fosse in quella testolina da milionaria.

Nel frattempo al terzo piano di un condominio malmesso dalla facciata verdastra stinta dal tempo, in un appartamento di quattro stanze George se ne stava con i pochi soldi della sua pensione in mano, riflettendo su quanto misera fosse, “uff” sbuffò goffamente e prendendo il telecomando nero rivestito di gomma da sopra il tavolino, accese la televisione, premette un numero a caso sul telecomando ed il primo programma in cui s’imbattè  fu il telegiornale del pomeriggio “ancora scontri in medio oriente fra le truppe…un uomo impazzito spara alla moglie e poi… rissa in un pub di Boston spunta fuori un coltello…passiamo adesso alla crisi economica…”; clic… spense di botto il televisore.  George pensò che ne aveva abbastanza di ascoltare telegiornali che parlavano solo di cattive notizie “mondo in malora…” borbottò in solitudine, si diresse verso il frigo bianco sull’angolo destro della stanza e prese una limonata che bevve in fretta, George Dempton era un signore di sessantaquattr’ anni, un po’ sovrappeso, e calvo con una faccia paffuta e da bonaccione, con una testa sulla quale la calvizie aveva ormai da anni fatto piazza pulita di tutti i capelli. Da giovane George aveva lavorato con suo padre nell’officina meccanica, e quando suo padre morì lui continuò l’attività fino alla pensione.

Con passo deciso si avviò in camera da letto, la stanza era in penombra e colma di ricordi, sul cassettone di legno in un vaso pieno d’acqua stavano quattro rose a fiori grandi con accanto la foto in bianco e nero di una giovane donna sulla trentina, si buttò sul letto distendendosi e girandosi dalla parte della donna in foto “ oggi vengo a trovarti, sei contenta? Cosi stiamo un po’ insieme…” si mise poi a pancia insù, i suoi occhi guardavano il soffitto alto della stanza ma la sua mente volava come un aliante a ritroso nel tempo, tornò alla prima volta che la vide quando una domenica pomeriggio della sua gioventù passeggiava in un viottolo e sbirciò dentro una panetteria; era scura di capelli con un grembiule bianco e macchiato mentre stava servendo da dietro il bancone una signora anziana e magra che contrastava con la sua figura di ragazza prosperosa.

Il giorno dopo tornò ancora in quella panetteria e la rivide, ma stavolta trovò anche il coraggio di entrare, “in cosa posso servirla?’’ Sono queste le prime parole che sua moglie gli disse con un’espressione sorridente e gentile da ragazza semplice, da quel giorno comprò sempre il pane lì e, giorno dopo giorno approfondì la conoscenza della graziosa ragazza dietro il bancone, finchè decise di darle un appuntamento che lei accettò volentieri, se lo ricordava come fosse passata solo qualche ora, gli sembrava di esser lì, in quel posto a qualche chilometro da Little Hope a parlare con lei sotto un bel sole estivo con tutta la vita davanti che gli si apriva piena di felicità e prospettive, in un tempo dove il futuro appariva come uno scrigno dei desideri, con una giovinezza da spendere con Tina. Si ricordò il matrimonio, la grande torta bianca a tre piani, il sorriso di suo padre e sua madre che gli guardavano con tenerezza, quando una volta sposati uscirono dalla piccola chiesa e la frase di Don Jeffrey: “siate felici figlioli! Che dio vi protegga!” E loro lo salutarono con il sorriso stampato sulle facce.

George si rese conto di essersi quasi addormentato vagando nel passato solo quando la porta della camera sbattè di colpo per una corrente d’aria, allora si alzò da letto e molto triste di essersi svegliato dai bei ricordi guardò la sveglia sul comodino a sinistra: “accidenti devo scappare sono in ritardo !! Ti avevo promesso alle sedici in punto e ci sarò!” Cosi uscì di casa in fretta e furia e si diresse alla fermata del bus un isolato più avanti. Fermo lì ad aspettare il cinque che doveva arrivare a momenti  si mise ad osservare le macchine che passavano, poi dopo qualche minuto vide sbucare dalla curva il numero cinque che fortunatamente non era molto affollato, il bus si fermò e le porte si aprirono George salì buttando subito l’occhio scrutatore in cerca di un posto libero, avanzò di qualche metro superando una signora con una bimba bionda ed un gruppo di ragazzi più avanti che stavano discutendo su come passare il prossimo weekend sedendosi poi sul sedile alla sinistra. Il tragitto non era molto lungo appena quindici minuti, George si frugò in tasca ed estrasse un ciondolo dorato contenete un’altra foto della donna si mise a fissarlo per tutta la durata della corsa, scese poi davanti al cimitero, con passo svelto superò il grande cancello in ferro battuto e camminò verso la terza fila di lapidi, notando che da un mese a quella parte erano state aggiunte altre due file di tombe.

Con rammarico vide passando attraverso la seconda fila una donna che piangeva e non potè fare a meno di buttare l’occhio sulla lapide che recava la data di nascita e morte, un ragazzo di ventidue anni, probabilmente suo figlio, giaceva lì sotto, George era sempre un po’ turbato quando le lapidi testimoniavano la morte di un giovane anche se costui era per lui un perfetto sconosciuto. Continuò a camminare ancora per circa un minuto sul terreno sassoso finchè non arrivò da lei.

La lapide di marmo bianco era colpita trasversalmente dai raggi del sole, la data di morte e nascita, cosi come il nome era color oro, e al centro vi era un angelo in rilievo che con le mani reggeva la foto di Tina, “sono arrivato cara…. mi aspettavi? Hai visto che bella giornata? È un peccato che non possiamo trascorrerla insieme…” fissò la lapide per alcuni istanti come se si aspettasse una risposta, “sono già tre anni che te ne sei andata, ma a me sembra una vita, il ricordo dei nostri giorni è sempre vivo in me, ci bastava solo stare insieme vero? A noi non serviva avere amici, ci bastava il nostro amore” una lacrima scese sulle guance del pensionato e percorrendo tutto il volto finì la sua corsa staccandosi dal mento e finendo sul terreno.

Un uccellaccio nero si posò improvvisamente sulla cima della lastra di marmo e George si adoperò immediatamente per cacciarlo via con una manata “vai a disturbare qualcun altro” pensò nella sua testa, “vuole un po’ d’acqua per i fiori? Hehe ..hehe.. sembra un lavoro facile il mio ma..hehe nono sempre a contatto coi morti… che barba hehe” era Carl Vernex il guardiano rimbambito del cimitero, “hem… no grazie ho già la mia” rispose educato George, “hehe hehe… questi uccellacci neri… sa portano sfortuna, sono ambasciatori di morte e tragedie” disse il vecchio Carl col secchio in mano contenente una putrida acqua, “ah bene, si capisco benissimo signor Vernex” lo assecondò in fretta, il vecchio guardiano lo fissò e dopo alcuni istanti proseguì “finiremo tutti lì mio caro George, ma la differenza è su come ci finiremo, perché vede…. un conto è morire di malattia o di vecchiaia, mentre altra faccenda è morire di una morte violenta e brutale, io so hehe so che prima o poi in questa città accadrà qualcosa di terribile, ho letto certi libri esoterici che dicono che quando alcuni pianeti assumono una determinata posizione si aprono porte che noi umani non immaginiamo neppure… terribile si, una cosa molto brutta…. i morti… i morti”.

Vernex si allontanò dopo alcuni istanti mentre l’altro continuava a fissarlo sbigottito, ma non troppo anche perché ormai era risaputo in giro che il vecchio Carl aveva perso il cervello,anzi forse non lo aveva mai avuto, infatti anche da giovane era più o meno come adesso. Cosi George continuò a fissare la tomba della sua amata mentre una folata di vento fresco gli carezzava la testa, chiuse gli occhi per un istante quasi a volere che il vento spazzasse via i lugubri discorsi del vecchio guardiano scemo; notò che alcune foglie si erano depositate sulla tomba, cosi si chinò subito per toglierle, “sai cara mi piacerebbe essere con te nel cielo, ma non temere fra un po’ credo che ci rivedremo così potremo ancora stare insieme” estrasse poi un fazzoletto di stoffa  dalla tasca dei pantaloni grigi e si asciugò la fronte.

George rimase ancora un quarto d’ora a parlare con Tina, poi decise di fare ritorno a casa, riattraversò il cancello in ferro battuto e si mise ad aspettare il tram alla fermata, però poco dopo cambiò idea a causa della sete “ho la gola prosciugata” disse con un filo di voce tra sé, si guardò intorno e vide poco più avanti un bar dall’insegna rossa “Peace bar” recava la scritta, cosi decise di incamminarsi fin laggiù, “tanto non ho niente da fare tutto il giorno, posso anche andare a bermi qualcosa” pensò mentre camminava verso la sua meta, si fermò al semaforo attendendo il verde qualche secondo poi  giunse dall’altra parte del marciapiede, percorse qualche metro ed arrivò.

L’interno era abbastanza accogliente, un barman dalla faccia simpatica stava dietro un lungo bancone in legno mentre puliva sorridendo un boccale di birra, dietro di lui sulla parete si trovavano gli alcolici, la cassa era situata al limite sinistro ed il cassiere era un uomo sulla quarantina con una camicia a quadri rossa e bianca che stava dando il resto ad un signore anziano che aveva comprato un pacchetto di sigarette. Su uno sgabello metallico davanti al bancone se ne stava un uomo di circa trentacinque anni con una valigetta ai piedi che stava sorseggiando un Gin Tonic in un bicchiere di vetro, George si avvicinò al bancone e si mise comodo su lo sgabello metallico vicino all’uomo con la valigetta “salve, cosa posso darle?” Ci pensò un attimo e poi “mi dia un’aranciata” il barman si diede subito da fare per preparare la bevanda, nel mentre George osservò l’uomo con la valigia, aveva un’aria stanca e continuava a sorseggiare il suo drink. L’uomo con la valigia si girò verso George quasi per dargli un’occhiata veloce “giorno” disse George sentendosi osservato, l’uomo non aprì bocca ma si limitò ad un cenno con la testa, era vestito con un’anonima camicia blu al polso un orologio color argento capelli scuri, una riga li mandava da destra verso sinistra e ai piedi calzava delle scarpe marroni in pelle; “ecco qua signore la sua aranciata” disse con un gran sorriso il barman.

George in quel momento prestò attenzione al contrasto fra l’allegro barman e l’uomo con l’espressione affranta che aveva accanto, poi prese il suo bicchiere e si mise a bere la sua aranciata, intanto l’uomo con la valigetta aveva finito il suo Gin Tonic, si era alzato e diretto alla cassa, “quanto pago?” “Due dollari” disse il cassiere, l’uomo si affrettò a pagare e si diresse all’uscita, nel mentre George gettò un’occhiata veloce e casuale ai piedi dello sgabello accanto, posò in fretta la sua bevanda si chinò e prese la valigetta dell’uomo “hei aspetti signore! Ha dimenticato questa!” Disse a voce alta, l’uomo si girò verso George “ah! Accidenti grazie! Davvero non so più dove ho la testa in questi giorni!” Disse tornando verso il bancone riprendendosi la valigetta “si figuri” disse George educatamente, allorchè l’uomo afferrò con decisione la valigetta e si diresse nuovamente verso l’uscita.

Appena fu fuori il suo telefono squillò “pronto?” Disse con voce un po’ tremante, aspettandosi già di sapere chi lo stesse chiamando “allora Howard a quanti contratti siamo oggi?” “Beh ecco stamani una signora ha firmato ma oggi pomeriggio purtroppo….” “accidenti a te ! Lo sai benissimo che devi viaggiare su una media di otto contratti al giorno! Muoviti! Datti da fare! Cerca di battere qualche altro isolato, sii più convincente!” Howard fece una smorfia e ribattè: “vede signor Roger io capisco benissimo che la compagnia voglia fare più contratti possibile, ma non è colpa mia se spesso non mi fanno neanche entrare in casa o se mi sbattono la porta in faccia non appena capiscono cosa siamo a vendere e…” “io ti ho assunto per essere come un squalo, gli devi convincere questi imbecilli a firmare capisci?? Non importa se il contratto è solo apparentemente vantaggioso noi dobbiamo tirare dritto ok? E se non sei capace o non te la senti posso benissimo sostituirti con un altro!” “Mi spiace signor Roger cercherò di mandare in porto altri contratti per stasera, vedrà sarò all’altezza, mi serve questo lavoro…” “bene allora si muova… clic” il burbero Roger aveva già riagganciato prima che Howard potesse aggiungere altro.

Con un muso lungo come un’autostrada si sedette un attimo su una panchina per riordinare le idee accavallò le gambe e si toccò pensieroso il mento liscio e ben rasato, “gli isolati ad est li ho già fatti tutti, sono stato anche dalle parti di Runhill, e pure nella zona dei nuovi appartamenti in Samworth Street…” si guardò intorno in cerca di una nuova direzione, sovrastato da un cielo blu “ma si! Potrei andare verso Hamilton Road nel quartiere delle case nuove” acchiappò la maniglia dello sportello della sua auto, mise sull’altro sedile la valigetta e partì.

Oltrepassò la casa dei Dowson quella con la staccionata bianca e la cassetta delle lettere rossa, poi si fermò all’incrocio davanti al semaforo ed attese il verde, una copia dell’Hope Today si piantò sul vetro della sua macchina e per un istante lesse la pagina che gli si parava sul vetro: “rifiuti tossici vengono scaricati nei fiumi, si attende un’inchiesta” l’articolo era a fondo della quinta pagina firmato D.Benny. E  prima che azionasse il tergicristalli il quotidiano si allontanò con una folata di vento, “scaricano questa robaccia nei fiumi e gli dedicano solo un piccolo articolo nella quinta… bah…” il verde arrivò e la vecchia auto color rosso ripartì. Percorse ancora un tratto di strada dritta, poi svoltò a destra in una via poco trafficata, fino ad arrivare all’incrocio dove il vecchio Harry aveva la sua officina, tirò dritto in Denver Road fino ad arrivare duecento metri più avanti ad Hamilton dove decise di parcheggiare in una via interna.

Scese dalla macchina prendendo con sè la valigetta e si incamminò verso la prima casa quella con le finestre chiuse e la facciata un po’ scolorita sul cui campanello luccicava la scritta “famiglia Dredders”, giunse alla soglia e suonò il campanello, dopo alcuni istanti gli si presentò davanti una signora con i bigodini in testa e avvolta da una vestaglia rosa acceso “salve, la signora Dredders?” Disse fiducioso il nostro con un sorriso che più falso non si può “mmm… si mi dica”  “hem..senta sono della compagnia telefonica Call and Recall, e vorrei fargli vedere la nostra vantaggiosa offerta…” “no guardi non mi interessa, stiamo benissimo cosi” disse la donna “ma se vede la sua ultima bolletta del telefono sono sicuro che confrontando la spesa con la nostra offerta si renderà conto che con noi risparmierà molti soldi” “senta non ci interessa, buona giornata” fece l’atto di chiudere la porta, “la prego, lasci che le illustri come i nostri contratti sono vantaggiosi!” Disse dopo aver ficcato il piede oltre la soglia per evitare la chiusura, “vede, sono sicuro che l’ultima bolletta che gli è arrivata era salatissima e…”  disse con aria supplichevole Howard “senta le ho detto che non ci interessa! Se ne vada o prendo il fucile di mio marito!” Howard si ritrasse all’istante.

Dopo che la porta dei Dredders si chiuse con violenza, gli venne quasi da piangere per la disperazione “cazzo! Cazzo…. oggi uno solo…”cominciò a farfugliare “sono finito, mi licenzierà, si ne sono sicuro…la mia fine è vicina…lo sento” si guardò un attimo intorno e decidendo di lasciare comunque la macchina parcheggiata si diresse verso il prossimo potenziale cliente.

Riprese in mano la sua valigetta e cercò di scacciare via il pensiero del licenziamento imminente, rimuginando su come avrebbe fatto a procurarsi un cliente “dunque…” Si guardò attorno “mmm…forse potrei tentare dopo il prossimo incrocio, ma si! Ci sono alcuni appartamenti più avanti, li forse avrò più fortuna che con quella balena di prima, spero solo siano un po’ più pazienti…” si incamminò lentamente verso l’incrocio poco più avanti, durante il tragitto gli tornarono in mente le ultime parole che sua moglie pronunciò l’ultima volta che la vide: “sei un fallito Howard, e io non posso più stare con te! Voglio il divorzio, ma che uomo sei? Sempre senza un soldo, mi avevi promesso un futuro roseo e guardati adesso, non hai trovato nulla di meglio del porta a porta!” Queste furono le ultime parole della sua ex moglie, scosse la testa e decise che era ora di concentrarsi sul lavoro anziché sul passato.

Il nuovo campanello recava la scritta “Milton” ma prima che Howard potesse schiacciarlo notò con stupore che la porta non era chiusa, ma semplicemente accostata. Stette li imbambolato per tre minuti, “al diavolo io entro” pensò facendosi coraggio mentre la voce risuonava nel suo cervello “sei un fallito! Fallito!” spinse piano la porta dell’abitazione “salve, c’è nessuno?” Silenzio.

Avanzò all’interno e notò che era una casa ben tenuta, dove delle scale bianche si innalzavano davanti a lui conducendo al piano superiore, sulla sinistra uno specchio d’epoca abbastanza grande lo rifletteva, cosi si girò di lato e guardandosi riflesso: “fagli vedere chi sei, altro che fallito, ecco come ti piazzo un bel contratto” si rese subito conto della stupidaggine di parlare al suo riflesso, e ne fu in un certo senso divertito, sorrise e si accinse a salire le scale “scusate! C’è nessuno in casa? Sono della Call and Recall…” ancora niente. A metà scala si chiese se non fosse il caso di andarsene, ma a trattenerlo furono dei gridolini soffocati provenienti da una stanza sulla destra, così spinto forse più dalla curiosità che non da altro avanzò lungo un breve corridoio ornato da quadri d’arte moderna fra i quali spiccava una riproduzione del carnevale d’Arlecchino di Mirò, fino ad arrivare alla porta dalla quale provenivano quei rumori soffocati.

La porta non era chiusa ma semplicemente accostata come quella d’ingresso e la scenetta che gli si parò davanti era quella di un tizio seminudo ornato di strane cinghie di pelle ed un collare borchiato tipo quelli usati per i bulldog che indossava degli slip in pvc; sul letto stava girata a pancia in giù una donna bionda completamente nuda e legata ai polsi con delle manette pelose “dai caro giochiamo alla fustigazione” l’uomo borchiato non se lo fece ripetere e prese un frustino, “ci penso io a questa bimba cattiva” disse da sotto una maschera in pelle che lasciava vedere solo gli occhi e la bocca, la prima frustata arrivò violenta sulla schiena della bionda che lanciò un grido. Howard era impalato lì davanti alla porta semichiusa, interdetto e pietrificato, “sei un maschiaccio cattivo, dai ancora!!” Disse la donna dai polsi legati, “ah sì ehh? Ne vuoi ancora cara? Adesso ti…” L’uomo mascherato gettò casualmente un’occhiata alla porta e rimase immobile per qualche istante “e tu che cazzo vuoi? Chi diavolo sei?”

Howard non sapeva cosa fare, immobile ed imbambolato “hem… io…cioè…vede… la porta aperta…” “Ahhhhhhhhh! Caro chi è quello, e perché ci spia???” Disse la donna in preda alla vergogna “no io non stavo spiando è che…” “te lo faccio vedere io guardone” l’uomo in pvc apri rapidamente un cassetto in legno dal quale estrasse un coltello da cucina dal manico nero.

Howard cominciò ad indietreggiare con la sua valigia in mano “prendilo caro, prendilo!” Howard cominciò a correre via ripercorrendo il breve corridoio mentre l’altro superò veloce la porta della camera e si gettò all’inseguimento, Howard arrivò alle scale e scese a perdifiato girandosi una sola volta dietro per vedere la situazione, ma l’unica cosa che notò fu l’uomo sadomaso che urlando “vieni qui maledetto!” Gli stava alle costole, Howard arrivò alla porta d’ingresso, la spalancò ed usci di corsa barcollando e quasi inciampando su se stesso, udendo sempre i passi veloci del suo inseguitore che si fermò sulla porta d’ingresso “pervertito schifoso vattene o ti insegno io a spiare nelle case della gente perbene!!” Howard si fermò dall’altra parte del marciapiede “uff… e il maniaco sarei io? Ma se questo se ne sta a casa con una maschera di pelle…” sbuffò Howard asciugandosi la fronte.

Tornando alla sua auto pensò che quella era proprio una giornata di merda iniziata male e finita peggio “era meglio se me ne stavo al bar a bere tutto il giorno” Salì, chiuse lo sportello e ripartì senza una meta precisa. Nella strada parallela a quella che Howard stava percorrendo, un ragazzino su una bici blu sfrecciava senza curarsi dello stop che aveva davanti, l’auto con a bordo un signore panzuto frenò di colpo lasciando sull’asfalto i segni neri “guarda dove vai scemo vuoi farti ammazzare?” Ovviamente Bill Cameron non sentì niente a causa delle cuffie che aveva, e continuò a pedalare velocemente, finchè arrivò al “Marvel Theatre” accostò vicino al marciapiede e legò con un lucchetto pesante in ferro la bici al palo.

Dopo essersi sistemato i capelli a caschetto biondi guardandosi allo specchietto che teneva sulla parte destra del manubrio, corse dal cassiere che stava pigramente leggendo una rivista “salve era oggi che davano: “I morti viventi colpiscono ancora?” Chiese ansioso, “beh “disse l’uomo lanciandosi la rivista dietro le spalle “vedi un po’ tu dalla locandina che c’è laggiù” disse l’uomo indicando un punto non troppo distante dove stava un’orripilante locandina in cui uno zombi tratteneva una ragazza sbranandola; il ragazzo sorrise e prese soddisfatto il biglietto. Il biondino percorse un corridoio tappezzato di locandine di film horror di serie z indicandole tutte e dicendo per ognuna a voce alta “visto visto visto!” E superando l’ultima che raffigurava The man with two heads di Milligan entrò nella sala di proiezione.

Si mise in terza fila, camminando nel buio della sala, quando ancora sullo schermo davano le pubblicità, le poltrone erano comode e di una stoffa rosso scuro, alcuni minuti dopo partì il film sullo schermo, e sulla faccia del ragazzino si dipinse un sorriso di soddisfazione, fu allora che estrasse dalla tasca dei pantaloni un pacchetto di bubble gum dal colore rosa, e se ne mise uno in bocca, facendo poco dopo esplodere la prima bolla nel buio della sala. I titoli di testa scorrevano sullo schermo e la prima sequenza mostrava già una serie di orrori ed atrocità che non potevano che divertire al massimo il nostro: giovani fanciulle dilaniate da zombi ammuffiti e famelici, spari, urla a volontà erano come musica per lui.

Durante l’intervallo decise di andare in bagno, ma non prima di aver dato un’occhiata dietro di sé, vide che la sala era quasi vuota, fatta eccezione due scansafatiche con giubbotti in pelle borchiati, un signore che era in evidente fase R.E.M., altri due studenti dall’aria nerd, e un tizio sulla trentina che stava mangiando con aria svogliata un pacchetto di chips. Entrato nel bagno notò con piacere che il cesso era lurido, incrostato ai bordi e puzzolente di escrementi ancora sul fondo, dato che l’ultimo non aveva tirato la catena. La piccola stanza era pure priva di finestre quindi l’odore ristagnava, la parete destra recitava: “334557649- chiama sono calda e ti aspetto” “abbasso la guerra” “fotti lo stato” “David sei un lurido stronzo”.

Bill guardò per un attimo il cesso, poi si decise a usare tutto il suo coraggio e si calò i pantaloni mettendosi a sedere “bleah è proprio uno schifo” disse sottovoce, poi dopo cinque minuti si alzò, e si ricompose, tornò nella sala dove il film non era ancora ricominciato, si sedette in un posto diverso dal precedente e attese la ripresa del film, che non tardò ad arrivare. Quando il film terminò, e le luci si riaccesero, notò che il dormiglione dietro di lui si era svegliato e i 2 tipi col giubbotto sembravano divertiti, usci dal cinema, salutando frettolosamente il cassiere, e quando dette un’occhiata al suo orologio in plastica notò che erano già le sette e un quarto “o mio dio la mamma mi ucciderà! Devo scappare!” Montò in fretta sulla bici e cominciò a pedalare verso casa. Oltrepassò due isolati, non c’era molto traffico e questo facilitò la sua corsa, mentre sfrecciava si immaginava già sua madre alla porta che col grembiule e il mestolo in mano pronta a sgridarlo per l’ora tarda, oltrepassò poi il ponticello a nord-est sotto il quale scorreva il fiume Magonnian e dopo circa quindici minuti arrivò a casa in Freedom Street.

Appena arrivato mise la sua bici nel garage illuminato al suo interno soltanto da una piccola lampadina che pendeva dal soffitto. C’era molta roba in quel garage, sulla sinistra lo scaffale con i pezzi di ricambio per l’auto di suo padre, sulla mensola sottostante giacevano alcune vecchie macchine fotografiche, sotto ancora alcune stinte riviste anni sessanta; mentre sullo scaffale di destra c’erano dei barattoli di vernice di vari colori, alcuni pennelli,un computer antidiluviano bisognoso di riparazioni,e quattro ruote di scorta per biciclette. Uscì in fretta richiudendo il garage e saltellando arrivò all’entrata di casa, ma mentre cercava le chiavi sua madre aprì la porta “Bill! Sei in ritardo per la cena! È questa l’ora di tornare?” Lo guardò la signora biondo-castano con aria falsamente minacciosa, “ho fatto un giro mamma! Dai non arrabbiarti, lo sai ormai sono grande!” Sara lo guardò e sorrise “vai prima in bagno a lavarti le mani e saluta papà che è in salotto” “ok mammina!” Camminò verso la porta del salotto che era aperta e vide suo padre Daniel seduto sulla poltrona.

Daniel stava guardando la televisione, indossando una camicia a righe e fumando una pipa, indossava ai piedi delle pantofole da casa, e una cintura marrone teneva su dei jeans comprati in centro “ecco la mia peste!” Disse l’uomo di quarantatrè anni alzandosi e mettendo il telecomando sul tavolinetto accanto, “ciao papà! Sono tornato!” “Si! Lo vedo, ma gli hai fatti i compiti? O sei stato fuori con la bici tutto il giorno?” Disse lui guardando suo figlio “sì che gli ho fatti! Non ci credi?” “Mmmm… si dai ci credo…” disse l’uomo prendendolo in braccio e stringendolo.  “Tu che hai fatto?” Chiese Bill “oggi dovevo prendere contatti con la Central Bank, è un po’ complicato da spiegare, quando sarai più grande ti illustrerò i dettagli” “ok papà!” “Ragazzi! La cena è in tavola! Venite di qua forza!” disse la donna dalla cucina.

Daniel posò a terra il ragazzo “su dai, vai in cucina io arrivo subito” Bill allora si diresse in cucina, Daniel andò verso la poltrona e cercò il telecomando lasciato poco prima per spegnere la televisione, guardò verso il tavolinetto e lo vide,ma la presa non fu delle migliori e il telecomando cadde a terra ribaltandosi dalla parte dei tasti cambiando canale, sintonizzandosi su una rete regionale che Daniel non aveva mai visto prima; la trasmissione, sembrava essere una specie di dibattito sull’inquinamento.

“Vi dico che ci ammazzeranno tutti! Non vedete che la Carlson&Co. Scarica i rifiuti nei fiumi della regione?” Disse un tizio con una ridicola cravatta viola e gli occhiali dalla montatura nera, “ehi! Un momento questo non è sicuro! Come fai a dire che è proprio la Carlson che danneggia l’ambiente quando nella regione ci sono altre tre aziende sospette?” Replicò un altro con una giacchetta verde e i capelli biondi, “è vero non c’è solo quella! Anche la Simon&sons se non ricordo male, ricevette accuse di questo genere in passato, chi ci assicura che adesso non lo facciano più?” Allora il tizio con la cravatta viola tornò all’attacco “pensateci un momento, vi prego… la Carlson&Co. È quella che producendo roba chimica deve avere sicuramente una gran quantità di materiale di scarto, quello delle prove andate male” “si ok, questo magari è vero, ma allora che mi dici della Jack General Factory? Buttano tanta di quella roba…” “ma la Jack General non produce roba chimica e poi butta tutto nella discarica, non nei fiumi!” Replicò quello con la giacchetta verde.

Daniel seguiva il dibattito con scarso interesse, ritenendolo solo pieno di ipotesi infondate e inutili congetture, “Caro vieni siamo a tavola!” Disse la moglie dalla cucina, Daniel allora si allontanò dalla stanza dopo aver spento la TV, mentre stava per prendere la parola un altro tizio con dei grafici in mano. Daniel si mise a sedere a capotavola, sorridendo alla moglie, e accarezzando la testa del figlio “ah! Bene vedo che stasera c’è lo stufato!” Disse rivolgendo un’occhiata d’intesa con Kelly “grazie cara, ne avevo proprio bisogno” “papà cosa stavi guardando alla TV? Sentivo delle persone discutere sull’inquinamento, e all’inizio mi è sembrato di sentire che uno diceva che moriremo tutti, è così?” “Ma no piccolo mio, era solo una trasmissione regionale, sono sicuro che quei signori non avevano di meglio da fare che spaventare un po’ gli spettatori per creare un po’ di audience” “su dai mangia il tuo stufato e lascia perdere queste chiacchiere” disse la madre al figlio, “è meglio guardare un bel film horror vero papà? Mi sembra proprio che stasera sul quarto canale verso mezzanotte trasmettono la Mummia, quello vecchio con quell’attore canadese!”

“Ah sì! Ho capito! Ma non finirà a un’ora troppo tarda?” “Ma dai papà lo sai quanto adoro gli horror, soprattutto quelli vecchi e in bianco e nero!” disse mandando giù un bel boccone di stufato.

Intanto in Francis Road vicino al piazzale California, in un edificio che ospitava al suo interno una grande sala il signor Williamson dirigeva i preparativi per la piccola festa cittadina che avrebbe dovuto svolgersi fra pochi giorni “si bene! Cosi! Trascinate più a destra il palco per le esibizioni dei sosia!” “Ok signor Wlilliamson!” Risposero quasi in coro le sei figure indaffarate, “voglio che tutto risulti perfetto, anche se si tratta di una semplice festa di paese!” Williamson diceva cosi perché quest’anno era toccato a lui essere l’organizzatore dell’evento, cosi voleva il sindaco di Little Hope.

Dopo aver girato nervosamente due o tre volte intorno al palco ormai sistemato dette un’occhiata ai gradini “bene, molto bene” disse a voce bassa poi dette una furtiva occhiata alle prime file di sedie sistemate davanti al palco “Cavolo ragazzi! Avete sbagliato il numero! Avevo detto che prima del palco volevo nove file di sedie e invece ce ne sono sette!” I giovani che stavano sistemando si guardarono a vicenda per alcuni attimi cercando di addossare la colpa a qualcuno “Albert! Ma non dovevi occuparti tu della sistemazione delle sedie?” “Ehh??!! Ma cosa dici Samuel? Io non le ho mai sistemate quelle dannate sedie, non era mio compito!” rispose il ventenne vestito con una canotta rossa e sudicia e i jeans aderenti, “Siete sempre i soliti! Sbagliate sempre tutto!” disse un altro di nome Andrew “okok! Adesso basta discutere! Andrew! Stewart! Forza! Aggiungete le file mancanti!” Disse Williamson, e i due eseguirono l’ordine con passo strascicato.“Non dimentichiamoci i microfoni mi raccomando, e anche gli amplificatori per le chitarre! Voglio che sia tutto pronto entro pochi giorni ok?” “Ok signor Williamson, come desidera” rispose per tutti Stewart, “ma che cazzata questa della festa,per non parlare dell’esibizione di un branco di coglioni vestiti da Elvis…” Disse ridendo Albert, “e stai un po’ zitto e lavora, a noi che ci frega? Ci ricaviamo qualche soldino no? Mi sembra meglio che pulire i cessi come il mese scorso!” Rispose Samuel, “beh si… meglio di quel fetore è sicuramente” rispose Andrew.

Erano ormai le dieci di sera, e l’atmosfera nel terzo castello a nord distante cinquecento metri dagli altri due era molto strana, benché fosse bel tempo in quella stagione, una fitta coltre di nebbia avvolgeva quelle tre antiche dimore, e all’interno, nelle ammuffite catacombe, popolate da orridi topi e ragni pelosi il vampiro si svegliò bruscamente. Il pesante coperchio in mogano scricchiolò vivacemente, e una mano bianchissima lo spinse sempre più verso l’esterno, una sinistra figura si alzò dalla bara “maledizione, mi sveglio sempre più tardi, e sempre più affamato…” Senza pensarci due volte la fredda mano afferrò il topo che si trovava nei pressi della bara e lo portò alla bocca dalle rosse labbra e dai denti aguzzi come coltelli “bleah! Guarda come sono ridotto, a bere il sangue di un lurido topo!” Gettò l’animaletto grigio e privo di sangue qualche metro davanti a sè, facendolo schiantare sul muro dove rimbalzò con un rumore sordo.

Ukras aveva sete, tanta sete, con passo deciso salì le scale formate da blocchi marmorei con venature grigie, arrivò al lugubre corridoio con le ampie finestre illuminato solo dalla luna, superò le tre armature medievali appartenute a famosi condottieri succhiasangue ed aprì la pesante porta che collegava il corridoio con l’ampio salone. L’interno era illuminato da un grande lampadario molto antico, al centro dominava una grande tavola di legno pregiato con al centro un vaso enorme e nero a forma cubica, con figure di demoni alati in rilievo, sulla destra una serie di quadri antichi raffiguranti i suoi antenati, sopra l’altra porta che conduceva al salotto troneggiava un grande stemma familiare raffigurante un cavaliere alato con armatura nera e la testa di pipistrello.

Ukras avvertiva la presenza di qualcuno nella stanza e con un sorriso beffardo avanzò e superò la statua raffigurante due vampiri amanti. Si fermò un attimo e sentì sul collo le fredde dita di una mano femminile non umana che lo sfioravano “buongiorno cara, sapevo che eri qui e che mi avresti fatto una sorpresa” “Ah! Sono diventata così prevedibile?” Disse la donna vestita con una vestaglia nera, e le unghie lunghe smaltate di nero, “no mia cara non intendevo questo, sei sempre bellissima come una creatura della notte” le labbra rosse della vampira si incollarono alle sue; poco dopo arrivò il gobbo servitore con un vassoio argentato “hehe padrona Mircalla gradisce un po’ di sangue?” “Si grazie Francis” la vampira bevve avidamente dalla coppa il sangue di un rosso intenso.

Ukras si mise a sedere a tavola e cominciò nervosamente a battere il piede ritmicamente sotto al tavolo, “cosa c’è caro? Forse senti anche tu quello che sento io?” “Tu cosa senti Mircalla?” “Sento che sono stufa di bere questo sangue, è come andare al supermercato, non c’è il gusto della sfida, della caccia, è come nutrirsi del cibo confezionato degli umani” disse guardando verso le coppe in avorio lavorato che Francis aveva posato sul tavolo, “è esattamente quello che sento anch’io, come mi piacerebbe riprovare il brivido della caccia, vedere il terrore negli occhi della preda. A volte con la memoria torno ai secoli trascorsi, dove cacciavamo liberi e le voci sui vampiri non circolavano come adesso, eravamo noi i padroni qui a Little Hope!” “Per non parlare di quelli fra noi che hanno perso gran parte dei loro poteri, pur essendo comunque sempre più forti degli umani” disse Mircalla “non possiamo continuare così, l’inattività nuoce all’organismo dei vampiri, alla fine diventeremo dei parassiti, è ora di smettere caro Francis di rubare sempre di soppiatto il sangue dagli ospedali, anche se è un metodo sicuro”.

I discorsi di Ukras avevano risvegliato nella memoria della vampira i ricordi dei tempi passati, e un lampo di gioia aveva attraversato i suoi occhi, per spegnersi poi in un istante. “Padrone non dica così la prego! Voi siete ancora il signore dei vampiri di questa zona, riuscite ancora a volare!” “E’vero Francis, ma sento che il tempo è giunto, dobbiamo uscire allo scoperto e ricacciare via tutti gli umani da questa zona, i veri padroni devono tornare!” “Sì, Ukras quello che dici è giusto, e infiamma la mia fantasia più di ogni altra cosa, ma come possiamo fare?” Ukras stette in silenzio per un attimo poi riprese “se decidiamo di uscire allo scoperto, dobbiamo avvertire gli altri componenti della nostra famiglia che risiedono negli altri due castelli qua vicino, ma prima ancora,dobbiamo recarci alla caverna dietro la collina per consultare Satron il veggente” Francis stabuzzò incredulo gli occhi “Satron! Quanto tempo è passato dall’ultima vola che l’ho visto!” “Forse saprà illuminarci sul da farsi mi fido di lui, i suoi sono sempre ottimi consigli” disse Mircalla incrociando le braccia, “bene allora prossimamente ci recheremo da lui e lo ascolteremo”.

La notte per i due vampiri scorreva tranquillamente, verso le due del mattino decisero di duellare un po’ con le spade, “vediamo se ci sai ancora fare con le spade antiche mia cara” disse sarcastico Ukras e la risposta di Mircalla non si fece attendere, si diresse velocissima al grande armadio contenete le spade lucidissime e scelse una sciabola araba, dando prima un fendente obliquo in aria e poi rivolgendo la punta verso Ukras, che sorrise compiaciuto prendendo velocemente la daga antica fissata al muro. Mircalla avanzò con la sciabola dal manico dorato in pugnò e sferrò un fendente dritto in direzione di Ukras, che schivò il colpo saltando improvvisamente sul muro e continuando a camminare su di esso orizzontalmente per un metro circa, poi si staccò con un balzo e afferrando con entrambe le mani la daga cercò di dare un colpo dall’alto verso il basso, mentre era ancora in aria, appena sopra la testa della donna “ah!” Urlò Mircalla facendo un rapido salto indietro. (PURTROPPO CONTINUA…)

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